Il vetro appannato faceva sembrare la città sottostante immersa
nella nebbia; pioveva, tutto era offuscato e le luci della strada,
delle macchine e delle case si confondevano in un unico grande
bagliore che appariva più lontano di quanto fosse realmente.
Le piccole gocce d’acqua che scivolavano sul vetro seguivano
percorsi a loro noti, scendevano veloci, si univano ad altre gocce
diventando più grandi e rapidamente cadevano giù.
Le osservava e sentiva freddo, con la fronte poggiata sul parabrezza
cercava di identificare la prossima goccia ballerina; ma
non ci azzeccava mai.
Loro, le gocce, se ne fregavano, partivano quando volevano e
audaci bagnavano la via della discesa.
Stava scomodo in una posizione innaturale, con il busto spinto
in avanti sopra il volante e la fronte schiacciata sul vetro, nonostante
il freddo non si allontanava, si voltò solamente poggiando
questa volta la guancia. Il ritmico fiato del suo respiro, che si condensava
spandendosi e ritraendosi su quella trasparente superficie,
era l’unica prova esteriore che fosse vivo, tanto stava immobile.
Provava a non pensare a nulla, ma non ci riusciva, anche
perché non pensare a nulla è molto più difficile di quello che sembra.
Allora conquistava prepotentemente spazio il suo pensiero
fisso, si ingrandiva e, come alimentato da tante gocce d’acqua che
convergevano nella sua testa, scrosciò forte in una domanda: andare
o restare? non era mai stato come i suoi amici, tutti entusiasti
e senza il minimo dubbio di andare a lavorare all’estero; ma ora,
dato che le cose non cambiavano, quel suo immobilismo lo stava
consumando dentro.
Porse l’altra guancia al vetro e quindi cambiò visuale, i suoi occhi
non guardavano più la città dall’alto ma la montagna, che buia
e maestosa si perdeva nello scuro abbraccio della notte. Rimaneva
fermo, come se ci fosse qualcuno o qualcosa a tenerlo stretto. Gli
rivenne in mente un ricordo d’infanzia, uno di quelli che, senza
motivo apparente, ognuno di noi custodisce fisso e indelebile nella
sua mente. Da piccolo, non ricordava l’età, c’era stato un periodo,
complice l’aver iniziato a dormire da solo, in cui aveva avuto
paura dei dinosauri. La veglia dentro il letto per prendere sonno
era sempre accompagnata da questa inquietudine irrazionale; si girava
con la testa verso il lato del muro, così il buio non gli poteva
nascondere nulla, c’era solo la parete a pochi centimetri dal suo
naso, e rimaneva immobile convinto che così niente e nessuno lo
avrebbe visto. era talmente terrorizzato, a volte, da pensare che
a ogni suo piccolo movimento, anche quello più impercettibile,
corrispondesse un passo verso di lui, lì nel buio alle sue spalle, del
dinosauro protagonista della sua paura. Si sorprese di questo vivido
ricordo e anche questa volta furono le gocce d’acqua a catturare
la sua attenzione, ma la percezione arrivò tramite l’udito;
sentiva il ticchettare leggero e continuo sul tetto della macchina.
Quella frequenza ripetitiva fungeva da diapason al battito del
suo cuore che percepiva sulla guancia spinta sul vetro.
Ti, ti, tiii, tii, ti… il suono leggero della pioggia sulla lamiera;
tu, tu, tu… il ritmico suono del suo battito cardiaco che sembrava
scoppiargli in testa. Ben presto non sentì più il ticchettio della
pioggia e il tambureggiante battito mononota del cuore prese il sopravvento,
era diventato fortissimo. Di colpo capì benissimo,
sentendolo sulla sua pelle, cosa volesse descrivere Edgar Allan
Poe nel suo racconto Il cuore rivelatore quando l’assassino, in
preda alle allucinazioni e impazzendo a sentire in testa il battito
del cuore, confessò il suo omicidio.
Improvvisamente sobbalzò in un urlo muto, aveva gli occhi
sbarrati e la fronte imperlata di piccole gocce di condensa.
Che fare? Partire? il contatto lo aveva, e poi sarebbe andato a
fare quello per cui aveva studiato, ma lontano dalla sua amatissima
terra, e per lui questa era una sconfitta tremenda.
L’alternativa però c’era.
Nel profondo del cuore, dentro il suo io più intimo, aveva capito
quello che la testa con la sua razionalità ancora non comprendeva.
Sapeva cosa fare e non poteva più continuare a portarsi
dietro quel peso, non sarebbe mai andato a lavorare all’estero, non
doveva più pensarci cullandosi con i se e con i ma, doveva solo
agire e scegliere. Avrebbe accettato quel contratto come collaboratore
esterno in quello studio di progettazione, era poca cosa ma
avrebbe dimostrato a sé stesso il coraggio di rimanere, per il
quale ci voleva molta più forza e volontà che per partire. Avrebbe
stretto i denti e continuato anche ad aiutare suo padre nei lavori
di campagna, sperando che le cose potessero migliorare col tempo.
Come le gocce d’acqua sul vetro, anche lui conosceva adesso
la strada che doveva percorrere, doveva solo partire staccandosi
dalle sue paure e il resto sarebbe venuto da sé.
accese la macchina con una luce diversa negli occhi: scendendo
verso la città, d’improvviso, come le gocce d’acqua, aveva
lasciato il suo immobilismo, percorreva la strada verso il bagliore
cittadino, la strada per riprendere in mano il pieno controllo
della sua vita.
Scrivi un commento